martedì, aprile 29, 2025

Le affermazioni di Papa Francesco sulla pace: considerazioni e valutazioni

Circa 300.000 anni fa è apparsa sul nostro pianeta una nuova specie di essere vivente, ovvero l’Homo sapiens, il risultato di un'evoluzione durata almeno 3,5 o 4 milioni di anni. Secondo i biologi, noi non siamo geneticamente molto diversi rispetto a quel primo Homo sapiens. Tuttavia, la popolazione è cresciuta, da pochi individui a oltre 8,5 miliardi, dimostrando capacità di adattamento e diffusione difficilmente riscontrabili in altre specie viventi.

Per almeno 280-290 mila anni l’uomo ha costituito delle comunità nomadi che si spostavano sia per la ricerca di cibo sia per trovare zone climaticamente più favorevoli. Quando l’uomo è diventato stanziale, ha formato comunità che dovevano salvaguardare il territorio dal quale ottenevano tutti i mezzi per il sostentamento. Se la comunità cresceva, doveva necessariamente espandersi su una maggiore porzione di territorio. Se non vi era territorio disponibile, spesso si occupava quello di un'altra comunità, il che è considerato come l'origine della conflittualità tra i gruppi di individui.

La “conflittualità” tra gruppi di individui della stessa specie per il possesso di porzioni di territorio è tipica e naturale per moltissime specie di esseri viventi, come si può osservare nella territorialità dello scoiattolo o dei grossi felini.

Con lo sviluppo del pensiero umano, emerge una nuova dimensione sociale. Il messaggio evangelico di Cristo propone una visione universale. Con il battesimo, l'uomo entra in una nuova dimensione sociale nella quale non ci sono più distinzioni tra gruppi e comunità, eliminando il principio di territorialità e confini da difendere o ampliare. Lo “spazio vitale” diventa quello del pianeta senza più nazioni. In questo contesto, i conflitti e le guerre non avrebbero più ragione di esistere.

Questo approccio, sebbene utopico, è coerente con l’insegnamento evangelico e dovrebbe essere considerato come premessa di qualunque discussione sulla guerra.

Papa Francesco parla di pace “universale”, però fa sempre riferimento alle nazioni in guerra ad esempio quella Ucraina o al popolo ucraino, così come alla nazione Russa, mai io ricordo un riferimento esplicito alla universalità, ovvero al superamento della nazione intesa come elemento divisivo tra le genti per dare origine ad un profondo cambio di paradigma. Dire che i contendenti sono tutti colpevoli e/o tutti innocenti non risolve il problema.

Non c’è una pace giusta o ingiusta nel nostro mondo ci sono solo rapporti poco o tanto conflittuali. Se i conflitti socioeconomici sono contenuti e “confinati” in accordi / trattati riusciamo ad evitare la guerra ma se si ritiene che sia necessario ed indispensabile uno “spazio vitale” allora si arriva alla guerra.

Questo è, tristemente, il contesto attuale e la voce di noi cristiani e anche di colui che tutti ci dovrebbe rappresentare come “pastore” universale non riesce a demolire il primordiale tabù del confine tra le nazioni e le diverse aspettative delle popolazioni.

La guerra russo-ucraina ne è un esempio. La Russia rivendica territori. Ad esempio, la Crimea venne conquistata in epoca zarista da Caterina II “la Grande” nel 1783 per un accesso sicuro al Mar Nero, garantirsi una “sicurezza” strategica nei confronti dell’Impero Ottomano e per ulteriori espansioni territoriali.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Crimea fu occupata dalle truppe tedesche e successivamente liberata dalle forze russe, entrambi gli eserciti causarono notevoli distruzioni. In quegli anni, l'URSS controllava tutte le Repubbliche Sovietiche, seguendo le politiche stabilite a Mosca. Nel 1954, Nikita Khrushchev decise di trasferire l'amministrazione della Crimea dalla Russia all'Ucraina.

In quell’anno si tratta di una pura formalità sempre di URSS si tratta.

Nel 1991 con il crollo dell’URSS tutto cambia, l’Ucraina diventa indipendente e “possiede” territorialmente anche la Crimea.

L’attuale rivendicazione territoriale della Russia nei confronti dell’Ucraina è legittima? Sulla base degli attuali trattati la risposta è semplice, NO! ma se incominciamo a dire però, nel 1783 e anche prima nel 1600, ecc... Che cosa potrebbe dire o fare l’Italia, ai tempi dell’Impero Romano la Gallia, l’Inghilterra, ecc... erano territori “nostri” li abbiamo perduti però … Insomma, non si finirebbe più.

Dopo due guerre mondiali e la creazione di “blocchi” tra le nazioni i governanti, anche sulla basse delle sollecitazioni popolari, hanno maggiormente sviluppato un atteggiamento di protezione dello status quo.

Si veda la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, a scopo dichiaratamente difensivo della NATO. Anche l’ URSS aveva lo scopo di mantenere uno status protettivo per le nazioni che ne facevano parte.

Negli ultimi 40-30 anni da una situazione di immobilismo territoriale si è passati ad una fase più dinamica condizionata da molti fattori, ne cito solo alcuni: la diversità nello sviluppo demografico, aree ad alta crescita si contrappongono ad aree in calo demografico o almeno ad incremento modestissimo; lo sviluppo di tecnologie avanzate; condizioni di lavoro differenti e quindi costi del lavoro differenti, conviene produrre magliette e scarpe in Cina o in Vietnam piuttosto che in USA o in Italia, la disponibilità di fonti energetiche a basso costo, ecc…

Tutte queste dinamiche hanno impattato sulle società nel loro complesso ed hanno creato tensioni tra nazioni confinanti. In molti casi tutto si è “risolto” con accordi commerciali che potevano garantire reciproci vantaggi e le questioni militari sono rimaste sullo sfondo, diciamo accantonate, anche perché nessuno a voglia di fare la guerra. Ma in altri contesti lo scontro è diventato cruento e l’unico modo per risolverlo è quello della guerra.

Fare una guerra è molto costoso e mi sono chiesto quali dati si possono reperire sul database della World Bank, sempre molto dettagliato, e facilmente utilizzabile per analisi globali.

Il database pubblico contiene quasi 9 milioni di dati riferiti a tutte le nazioni e riguardanti più 1500 indicatori socioeconomici.

Con Donald Trump alla casa Bianca e la guerra Russo-Ucraina il dibattito sulla spesa per la difesa e il “riarmo” si è fatto particolarmente acceso.

Mi sono chiesto se è possibile osservare una qualche relazione tra spesa militare e “propensione” alla guerra, può essere vera l’affermazione che se si comprano armi prima o poi si useranno e quindi si farà una guerra?

Analizziamo un po' di dati.

Nel 2023 l’ammontare totale della spesa militare[1] mondiale è pari a poco meno di 2.400 miliardi di dollari pari al 2,35% del PIL, quasi 100 miliardi in più del PIL dell’Italia.

Una spesa enorme. Oltre I’87 % di questa spesa totale è sostenuta da 20 paesi, il primo, gli USA con oltre il 38% della spesa, seguono Cina (12%), Russia(4,6%) e India (3,5%), l’ultimo è l’Olanda che nel 2023 spende “solo” 16 miliardi di dollari pari allo 0,7% del totale. Nello stesso anno l’Italia spende 35 miliardi di dollari. Si consideri che a valori costanti 2015 il PIL dell’Olanda è quasi la metà di quello dell’Italia.

Il grafico 1, sotto riportato, mostra l’andamento dell’incidenza % delle spese militari sul PIL nel periodo dal 1960 al 2023. Per la Cina i dati sono disponibili dal 1990, mentre per la Russia solo dall’anno 2000. Ad eccezione della Russia l’incidenza % delle spese militari sul PIL si mantengono sostanzialmente stabili con piccoli incrementi a partire dal 2022.

La Russia al contrario ha incrementato la spesa nel 2022 e 2023, ovvero con l’inizio della guerra.


È interessante osservare come i dati statistici non riescono ad illustrare una “propensione” al riarmo che possa far emergere la volontà programmata per una aggressione bellica. Lo stato di Israele ha vissuto nel periodo 1960-2023 noti periodi in guerra, quindi è comprensibile che lo stato destini una quota significativa del PIL alle spese militari si aggirano attorno al 5%, ma solo negli anni di guerra si osserva un picco nelle spese e non prima.

Se si osservano gli andamenti si potrebbe concludere che ogni nazione, in periodo di pace, spende una certa somma di danaro tale da permettere il mantenimento di una struttura organizzativa militare, il più efficiente possibile, che in caso di conflitto, possa essere mobilitata, con successo, per la difesa da una eventuale aggressione.

Nel grafico 2 sono riportati i tassi annui di variazione di tre grandezze significative: l’ammontare del PIL espresso in dollari a valori correnti, il totale della popolazione e l’ammontare delle spese militari, anch’esse espresse in dollari a valori correnti.

Come si può facilmente constatare le spese militari per quasi tutti i paesi sono cresciute, anche se di poco, con percentuali non molto differenti rispetto al PIL e l’incremento o decremento della popolazione non ha influenzato il decisore nelle spese militari.

Nel confronto anno 2000 e anno 2023 è ovvio che le due nazioni in guerra come Ucraina e Russia hanno incrementato lo spese militari. Situazione un po' più anomala è quella dell’Algeria. Il considerevole incremento pare essere dovuto alla necessità di incrementare le difese per evitare possibili tensioni nelle regioni del Sahara attualmente oggetto di contenzioso territoriale. Anche la Polonia ha incrementato le spese militari, atteggiamento più che comprensibile viste le non poche tensioni ai sui confini orientali.


Il database della World Bank riporta che nell’anno 2020 le forze armate a livello mondiale contano poco più di 27,4 milioni di soldati (vedi tabella 1a, 1b, 1c). Solo 4 nazioni hanno più di un milione di soldati e sono rispettivamente l’India con oltre 3 milioni, la Cina con 2,5 milioni, Russia e USA con ca. 1,5 milioni. Avere più o meno soldati è ovviamente importante, possono servire come “massa d’urto” ma è altrettanto importante capire se sono ben armati. Per quest’ultimo aspetto la spesa totale è stata divisa con il totale degli effettivi ed emerge un “quadro” che mette in evidenza le notevoli differenze tra gli eserciti.

Gli USA spendono per ogni effettivo 558 mila dollari, la Cina 101 mila dollari, la Russia 42 mila ed infine l’india 23 mila. Al fine di comprendere meglio l’effettiva superiorità di questo o quell’esercito i dati precedenti andrebbero maggiormente indagati ed investigati però è innegabile che se spendo 5 o 10 volte tanto per ogni soldato ciò significa che sono dotato di un armamento più moderno e senza dubbio tecnologicamente avanzato. La potenza mondiale degli USA è indubbia, così come il mantenimento di basi all’estero, flotte in ogni oceano, aerei e satelliti in ogni cielo abbiano costi enormi.

Dalla analisi, si veda anche il dato delle spese militari per abitante, stupisce che nazioni pacifiche abbiano spese per soldato assai cospicui. In un range di spesa tra i 450 e i 200 mila dollari si collocano, in ordine decrescente le seguenti nazioni: Australia, Lussemburgo, Svezia, Regno Unito, Danimarca, Canada, Olanda, Germania, Norvegia, Svizzera, Nuova Zelanda, Kuwait, Arabia Saudita e Belgio.

È forse troppo affermare che tutte queste nazioni che spendono così tanto per ogni soldato in realtà sono tra le più “pacifiche”. La Svezia fino all’anno scorso era neutrale, così come lo è tutt’ora la Svizzera.


Alcune conclusioni.

Primo. La spesa militare corrente non rappresenta l’elemento principale che da origine ad un conflitto. Gli stati non si preparano più alla guerra, in pratica cercano di avere dei sistemi di difesa in grado di rispondere efficacemente ad una aggressione militare per tutelare i propri cittadini.

Quando poi sono in guerra sono in grado di mobilitare molte risorse e pertanto, solo durante il periodo di conflitto le spese militari aumentano enormemente. Nel 2023 l’Ucraina ha speso il 36% del suo PIL per la difesa.

Sulla base dei dati presentati l’affermazione che l’incremento delle spese militari porti inevitabilmente alla guerra non trova fondamento, anzi si potrebbe dire che i paesi che più spendono, in relazione all’esercito che possiedono sono quelli che sono più in pace.

Secondo. Attualmente tra le nazioni vi è un elevato squilibrio nella spesa militare. Gli USA detengono un poco inviabile primato, spendendo più del 3% del PIL, ma lo esige la loro dimensione “planetaria”. Se il presidente Trump vuole diminuire l’impegno finanziario vuol dire che intende rinunciare alla difesa USA di alcune aree geografiche più o meno estese.

Le nazioni della NATO, hanno speso nel 2020 1.1 miliardi di dollari. L’elaborazione dei dati non mi permette di stabilire quanto gli USA spendono per la difesa europea. Supponendo, in modo spannometrico, ma i militari lo sapranno bene, che gli USA spendono per l’Europa il 50 % della loro totale si ottiene ca. 350 milioni di dollari, dato non molto distante dai 340 milioni di dollari che spendono le nazioni NATO escludendo gli USA.

Molti commentatori hanno osservato che se gli USA pensano che i membri della NATO debbano spendere il 3% del PIL per la difesa, i finanziamenti dovrebbero aumentare di oltre 270 miliardi di dollari. Questo significherebbe per gli USA rinunciare alla propria leadership. Ma agli USA conviene veramente?

È molto probabile che non sia affatto necessario raddoppiare la spesa per armamenti ma razionalizzare quello che si sta facendo ovvero, essere in possesso di una struttura efficiente e flessibile in grado di dissuadere un eventuale aggressore. La NATO, USA esclusa, è in grado di dispiegare oltre 2,5 milioni di soldati, siamo proprio sicuri che ne siano necessari così tanti? A mio parere possono essere molti di meno ma meglio armati e meglio dislocati. Insomma si può fare meglio spendendo poco di più.

Terzo. La guerra Russo-Ucraina. Nel 2020, confrontando i dati della spesa militare della Russia con quelli dell’Ucraina, si sarebbe potuto concludere che l'Ucraina sarebbe stata rapidamente conquistata dalle truppe russe. Tuttavia, la situazione si è evoluta in maniera differente. Sebbene il sostegno occidentale sia stato fondamentale per l'Ucraina, anche la preparazione militare interna ha giocato un ruolo cruciale nella resistenza ucraina che continua da oltre tre anni.

Dal punto di vista strategico-militare, la Russia ha incontrato difficoltà significative, nonostante la sua superiorità numerica in termini di forze armate. Nonostante l'impiego di tutte le risorse disponibili, esclusi gli ordigni nucleari, le conquiste militari sono state ottenute a un costo umano elevatissimo. Con un esercito di oltre 1,5 milioni di soldati, la Russia ha dovuto ricorrere all'impiego di soldati nordcoreani e alla liberazione di detenuti per integrare le proprie fila.

Questo conflitto ha dimostrato che la sola presenza di soldati non è sufficiente e che alcune armi leggere possono avere effetti devastanti in aree ristrette. Anche se è difficile stabilire l'effettiva condizione dell'esercito russo, è chiaro che lo sforzo economico necessario per sostenere questa guerra non è più a lungo sopportabile. Quando la guerra finirà, la Russia si ritroverà con un'economia compromessa. Putin ne è consapevole e per questo è determinato a ottenere significative conquiste territoriali a tutti i costi.


[1] I dati sulle spese militari del SIPRI derivano dalla definizione della NATO, che include tutte le spese correnti e in conto capitale per le forze armate.