Nel post di ieri ho citato lo studio di Ronald Trostle Global Agricultural Supply and Demand: Factors Contributing to the Recent Increase in Food Commodity Prices pubblicato nel maggio del 2008 dall’USDA (United States Department of Agriculture). Sono 30 pagine assai interessanti ricche di dati e di analisi scritte nell’asciutto e concreto modo tipico dei ricercatori anglo-sassoni.
Se non avete il tempo di leggerlo cito un aspetto conclusivo del rapporto, quello relativo all’impatto dell’aumento del prezzo dei prodotti agricoli sulla spesa alimentare.
Il modello elaborato, di tipo econometrico, (e qui si riapre la riflessione sulla utilità dei modelli) tiene conto della “dieta”, ovvero degli alimenti che mediamente consumiamo nei paesi sviluppati e nei paesi in via di sviluppo ed importatori di prodotti agricoli.
Se si ipotizza un aumento del 50% dei prezzi dei prodotti agricoli (frumento, mais, olio, ecc..) si avrebbe un aumento del 6% del prezzo della spesa alimentare per nei paesi sviluppati, mentre data la diversa incidenza della spesa alimentare nei paesi in via di sviluppo con deficit alimentare l’incremento è di oltre il 21% sulla spesa per alimenti.
Lo scenario ipotizzato tiene conto del reddito e di come viene distribuito. Nei paesi sviluppati (siamo poi tra questi?) l’aumento del 6% della spesa alimentare rappresenta solo lo 0,6% del nostro reddito mentre per i paesi in via di sviluppo l’aumento del 50% per prezzi dei prodotti agricoli ha un impatto del 10,5%.
Se osserviamo i dati presentati nei giorni scorsi l’aumento del prezzo dei prodotti agricoli è ben al di sotto del 50% ipotizzato nello studio dell’USDA ed allora perché osserviamo quel 6% di aumento della “spesa” per l’alimentazione?
In ogni caso quel 6% di aumento non ci porta alla “rovina” si tratta di solo dello 0,6% di quanto guadagniamo.
Il problema è capire chi sta facendo il furbo. Il signor “mister prezzi” vuole intervenire o se ne sta a guardare?
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